Antonio Porta, Yellow

27 dicembre 2003 Articoli e recensioni
Antonio Porta, <i>Yellow</i>

« Con questa lingua aerea / che non vuol farsi corpo / che non diventa dura abbastanza / per penetrarti come meriti, / puttanapoesia / per farti inginocchiare / e dire la verità / che per essere veramente poeti / occorre un’intelligenza sovrumana. » Questa poesia di Antonio Porta, contenuta in uno dei quadernoni autografi su cui in parte si basa l’edizione della sua raccolta postuma, proprio quello Yellow che dà il nome all’intera opera, è come un manifesto di tutta la ricchissima collezione di versi e forme che è vi è contenuta, riordinata dall’attentissima cura di Niva Lorenzini, che firma anche una splendida postfazione. Si tratta di un bellissimo testo che vede oggi la luce negli Specchi Mondadori certo anche grazie alla generosità di Rosmary Ann Liedl, vedova del poeta veneto, una donna intelligente e meravigliosamente testarda, che da anni dedica tutta se stessa al tentativo titanico di impedire che la società italiota delle lettere, così pronta a dimenticare tutto quanto c’è di scomodo, rimuova anche Porta e la sua memoria.
Libro terminale che giunge già oltre il traguardo e che si conclude, significativamente, con la data di nascita del poeta, quasi a chiudere un cerchio, Yellow conferma, se pure ce ne fosse bisogno, la complessità e la profondità di una ricerca poetica mai sazia, sempre disponibile allo scarto, al rischio di una nuova esplorazione, sempre con le orecchie tese al mondo, in cui anche i sentimenti sono il risultato di un profondo pensare della materia e nella materia. Yellow è, dunque, la storia di un corpo a corpo con la lingua e con i ’generi’, di una poesia che è sempre in conflitto con le forme date, un conflitto fatto esplodere proprio nutrendosi di quelle forme, un tradimento che è disperata ricerca di fedeltà, scoperta e poi sempre perduta, proprio nel trasformarsi e succedersi delle forme e dei linguaggi: « che per essere veramente poeti / occorre un’intelligenza sovrumana. ». Opera che in più si porta dietro un fascino tutto particolare, quello di ogni testo postumo e cioè, come sottolinea Niva Lorenzini, «quello di una scrittura restata in progress, e dunque non definitiva, aperta a possibili, multiple interpretazioni», spazio di una radicalizzazione estrema di temi e forme già presenti, di messa alla prova definitiva di quell’oggetto «iperdelicato» che è la poesia, ma che poi non è certo «inoffensivo (…), pacificato: piuttosto luogo di attriti, shock non ricomposti - è sempre Lorenzini che parla - che interessano non solo il livello ritmico, ma insieme quello tematico, stilistico, strutturale»: questo è Yellow, che riunisce in sé, seguendo indicazioni manoscritte lasciate dall’autore, testi che provengono da tre quadernoni (oltre all’eponimo, City e Berkeley), poesie disperse e una serie di testi, in parte già editi, che Porta prevedeva dovessero confluire in un volume da lui indicato come Nuovo Diario.
Non a caso è proprio la commistione, il fondersi creolo dei linguaggi e dei generi la cifra caratterizzante del testo, a cui la forma diaristica fornisce un eccellente e versatile contenitore. Nulla da stupirsi in un autore che da sempre aveva dichiarato di non essersi mai «sentito appagato di una forma», ma di aver sempre cercato di «provocarne molte». Il tutto, però, a partire da un’esigenza nuova, dichiarata sin dalle righe di apertura: quella di superare la poesia "leggera" e trasparante della Distanza amorosa : «Riletto un minuto fa le 10 poesie della Distanza amorosa. Senso di distacco. Mi sembrano leggere, ho voglia di poesia che pesi adesso». Ciò di cui si sente il bisogno è una lingua poetica che sia « pinza che pizzica la realtà. La punta aguzza del reale». Non c’è canto, né lirica, dunque, in Yellow, e non caso Niva Lorenzina titola la sua post-fazione Cronistoria di un canto mai nato, piuttosto un affamato seguire il mutare dei generi e dei linguaggi - quello che a me piace definire trans-genderismo delle forme - alla ricerca di un genere nuovo, misto o creolo, ma comunque assolutamente contemporaneo e che il poeta veneto, riferendosi a Pound, chiama «forma onnivora». Chi avesse dubbi può confrontarsi direttamente con le parole di Porta: « Un ascensore che precipita giù / dentro il corpo fino al buco del culo / e di là esce talvolta / il canto è questo sibilo di castrato, / anche di paura, di rabbia, indicibile / vergogna di aver perso tutto.» Poi c’è, certamente, un bisogno, anzi una irrespingibile necessità di comunicazione, ma che non ci sia sinonimia (anzi!) tra lirica e necessità di comunicazione è cosa su cui non mette conto discutere, meno che mai ad Avant-Pop ormai conosciuto, digerito e, ormai, già quasi evacuato…
In questo contesto la forma in progress va intesa come fiducia nel nuovo, in quello che verrà, nel cambiamento, e la forma diario è la cronaca in tempo reale di questo percorso, accidentato ma meraviglioso, alla ricerca di una nuova lingua, aggirandosi tra le rovine. Yellow è, insomma, a parer mio, un libro integralmente postmoderno, scritto come solo uno degli ultimi moderni poteva fare, raffinatissimo e insieme capace di immaginare il futuro. Esso sembra volerci ricordare che il poeta migliore è sempre quello che non è ancora nato: per il canto, ovviamente, vale la stessa regola…

Antonio Porta
Yellow
Mondadori - Gli Specchi
A cura di Niva Lorenzini
Note di Fabrizio Lombardo

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