Alla ricerca del Picachu perduto: diario giapponese.

19 novembre 2003 Costume e società
Alla ricerca del Picachu perduto: diario giapponese.

Alla ricerca del Pikachu perduto: diario giapponese
Tokyo 1-9 aprile 2001

Tokyo è sul mare. Strano come non ci si pensi fino ad un attimo prima dell’atterraggio all’aeroporto di Narita, mentre l’aereo vira sull’oceano e punta verso i grattacieli di Shibuya, il quartiere che fa tendenza. Dunque Tokyo ha qualcosa in comune con Napoli, Marsiglia, Genova e Rio? Incredibile come ci si arrivi tutto sommato convinti che la città si affacci sulla Rete, o su un enorme distesa di chip, banche e joint-venture. Invece no. Mare Oceàno, ricco di tonni e sardine, e balene, qui commestibilissime, catturabili e catturate. Grigio, in questo tardo pomeriggio di primavera. Il jumbo della JAL sembra ormai affannato, dopo averci trasportato per dodici lunghe ore, sopra gli Urali, la Siberia, fin lì, sfrecciando lento, a chilometraggi supersonici, su deserti bianchi e ora i monitor incastonati negli schienali dei seggiolini ci rimandano le immagini di una telecamera galeotta, montata sotto la sua pancia e vediamo la pista che ci viene incontro a velocità sempre più elevata, come in un video-gioco che voglia inghiottirci. Quasi mi aspetto che, mentre i reattori, invertita la potenza, frenano tonnellate di turisti e viaggiatori e valigie e poeti italiani ed hostess col sol levante in bocca, sugli schermi appaia sardonica la scritta: GAME OVER.
Poi ci inghiotte un enorme finger di metallo, pieno come non mai di poesia e musica italiana, piuttosto malferme sulle gambe, a dire il vero, praticamente in sindrome da economy class. La voce da corvo post-togliattiano di Leonetti riempie l’aeroporto, mentre stupefatti doganieri jap ci guardano e ci domandano muti e tutti occhi: turisti italiani in Japan? Ma com’è possibile? Sono i giapponesi che si turistano in Italia, non il contrario. Li rassicuriamo. Occasione lavorativa. Italia in Giappone 2001. Letture di poesia e musica e video-arte. Ok, tutto regolare, allora.
Pullman navetta con lampade stile muranoinbancarella e tangenziali e sopraelevate e sottoelevate e ingorghi maestosi che si spalmano dalla costa al centro della città senza centro. Benvenuti a Tokyo. Le periferie giapponesi mi sembrano assolutamente continental, non fosse per le insegne ideogrammate che spuntano dappertutto. Tristi come dappertutto, con le strade che si infilano tra camera da letto e salone, che sfrecciano a lato del bagno e della camera dei bambini. Ma il Giappone dov’è? Che c’entra il Giappone, questa è Tokyo. E ride ancor prima di dirmelo, Ilaria Drago, l’attrice che ci accompagna, Gian Burrasca di classe che ci salverà tutti almeno un milione di volte da depressioni e secche sceniche nei giorni che ci attendono. Tokyo, caro Lello, è Tokyo, non il Giappone. Ok, va bene così, io per me spero almeno di incontrare Pikachu.

Dalla mia camera al diciottesimo piano di un hotel nel quartiere delle Stazione Centrale, Chiyoda-Ku, vedo un pezzo del Giardino Imperiale e sullo sfondo i grattacieli e la Tokyo Tower, un’Eiffel con gli occhi a mandorla, alta 30 metri in più dell’originale con l’erre moscia. Continuo a sperare di incontrare Pikachu. Di lui non c’è traccia, anche del mare, ormai, si è perso ogni ricordo. In basso, a lato del fossato del Palazzo Imperiale lampeggia l’insegna di un Capsule hotel, dentro si alloggia ciascuno in una sorta di bara: letto, luce da notte, televisore, sveglia. Una cella da carcere speciale, per impiegati ubriachi. Più avanti, a me sembra proprio ai piedi della Nippon-Eiffel, si scorge invece l’entrata di un Love Hotel, con un via vai di macchine che si infilano nel park sotterraneo con carichi di eros clandestino nel bagagliaio. L’ascensore, poi un quadro luminoso dove scegliere la stanza, i soldi infilati nella vagina anonima di una fessura nel muro che in cambio partorirà la chiave, sussurrando kyukey se si resterà poche ore, o tomari se ci attende un’intera e kamasutrica notte d’amore.
Guardo sconsolato il mio WC elettronico, con bidè a spruzzo e idromassaggio anale e decido di farmi passare il delirio da jet lag dormendoci su tutta la notte.

Il Jap è bellissimo, anche senza Pikachu, è pieno di ciliegi fioriti stamattina e vicino all’Hotel, proprio di lato all’Istituto Italiano di Cultura dove ogni mattina facciamo le prove degli spettacoli, c’è un parco pieno di bancarelle, di gente che sotto i ciliegi stende teli di plastica blu e fa pic-nic serissimi. Le scarpe lasciate a lato del telo, sole o pioggia che sia, impiegati delle multinazionali e senzatetto. Dignitosissimi. Che celebrano la primavera. Intorno a loro fiumane amazzoniche di uomini e donne che vanno e vengono, una roba che a sbagliare a inserirsi nella corrente ti ritrovi altrove in men che non si dica. Ci sono celebrazioni scolastiche. Allievi in divisa. Qui sono tutti in divisa. Alunni e bidelli universitari, portieri e guardie private, pony express e cameriere. Oltre alla polizia naturalmente. Il problema è che un povero occidentale capirà difficilmente a chi consegnare i documenti, a chi la chiave della stanza d’albergo, o il modulo. Dappertutto ragazzi con bandiere e capisco che sono insegne, come boe dal codice colorato, fari per raggiungere il porto. Per non perderci noi poeti italiani potremmo forse vestirci in biancorosso&verde? Mi guardano tutti come se fossi pazzo e lascio cadere l’argomento. Se smarriremo qualche pezzo di letteratura italiana tra Giza e Rappongi, poi però non vengano a lamentarsi da me…

Shibuya è inimmaginabile. Quasi non ci credevo, spuntando fuori da una specie di enorme centro commerciale che è la stazione della metro JR Yamanote. Blade Runner è qui. Gli schermi televisivi sono grandi ettari quadrati e coprono pareti intere di grattacieli e palazzi. L’età media delle decine di folle che si accalcano nelle stradine che partono dalla piazza è di sedici anni. Un tripudio di boutique, locali di tendenza, pachinco e karaoke. Tonnellate di dischi. Musica e kilometri di scaffali di Manga. Le lolite ci sono davvero, e sono la faccia illuminata delle centinaia di allieve in gonnellina plissettata e calzini bianchi che affollano Chiyoda-Ku. O forse sono le stesse. Ora fantasmagoriche, elettriche di colori e nuances, verdi, gialle, arancioni, con ai piedi zeppe da settanta centimetri, che solo la loro timida statura può indossare con tanta grazia. Minogonne a strozzo. I ragazzi sono tutti decolorati, qualcuno porta addirittura barba e baffi. Si ha come la sensazione di essere al centro di un grande frullatore di mode, idee, tendenze, un vortice che inizia con i jap che vengono in Europa e importano (noi diciamo copiano) poi trasformano, mixano e ci rimandano tutto al mittente, trasformato. E poi l’impressione netta di una gioventù stanca, sia dell’antichissimo che del modernissimo, resa cinica dalla deflazione di idee ed economia reale, ma ancora abbastanza ricca per potersi limitare a guardare e a fare spallucce. I migliori, come riporta la stampa francese di oggi, si dedicano al volontariato nel Sud Est asiatico povero… Le nostre Lolite nel frattempo si sono rifugiate in massa in strani negozi per sole teen femmine. Riusciamo ad entrare mostrando la telecamera e accampando veri o presunti titoli giornalistici. Ne usciamo delusi, niente teen-mutandine usate in vendita, solo ragazzine che sorridono per foto di gruppo su sfondi campestri, scaffali di giornaletti e gadget da Barbie nipponiche, sorrisini imbarazzati. Incredibile! La colonna sonora è tra hip hop e tecno-jungle, i Dj vanno alla grande anche qui. Al quinto piano di uno stabile, tra un parrucchiere e un locale di karaoke, scopriamo anche un negozio di Legal Drugs, si chiama On Air, insegna con funghetti su sfondo fumante. Chiuso: e nessuno ha voglia di dirci come mai sia l’unico esercizio sprangato fuori orario nel puntualissimo Giappone. Siamo stanchi e rinunciamo alle cartine con ideogramma al gusto di saké. Siamo davvero fiacchi, deflazionati direi. Nuotiamo tutti verso la riva, tagliando fiumane di esseri umani. La metropolitana che ci riporta a casa si ferma all’ottavo piano di un grattacielo. Prendiamo l’ascensore per scendere a terra. Scusi, domando confuso all’impiegato che mi controlla il biglietto, sorry but is this an underground or an aerial ropeway? Insomma è una teleferica o una metropolitana? Quello scuote le spalle, sorride e mi risponde solo: Okey, Sir! La solita, maledetta cortesia orientale che mi ha fregato di nuovo… Di Pikachu nessuna traccia…

Il festival va avanti e, a parte la costante latitanza di Pikachu, va avanti alla grande. I jap sono conquistati da questa stravagante poesia italiana, fatta di poeti mixati con musicisti, video-artisti, attrici, agitati e poi gettati sul panno verde del palco con hasard improvvisativo quasi rimbauldiano. Leggiamo a mitraglia, giovani, vecchi e mezzani sulla cresta dell’onda della musica di Cinque&Bros. premiata band inventata su due piedi qui a Tokyo, svisando sulle immagini di Giacomo Verde, facendo eco alla voce di Ilaria che dura e tenera pulsa nella sala: siamo fieri di noi e del nostro strabordante pubblico. Poi di sera si va mangiare e, se scampiamo a ricevimenti ufficiali e celebrazioni in punta di penna all’arrabbiata e fonduta di Fondazione su Ambasciatore arrosto con contorno di Addetto militare al finocchietto, il più delle volte, si va a culo a terra, su tatami di osterie giapponesi, dove al posto dei menù trovi portfolio fotografici o riproduzioni in plastica di sushi e sashimi. Ci ingozziamo di fritture e saké. Siamo così allegri, che alla fine ci tiriamo dietro sempre qualche japponese simpaticone al grido di Nakata! Nakata! Utilissimo per tradurci tutti gli inviti cortesi, ma fermissimi, con cui alla fine ci sfrattano il culo dal tatami ad orario di chiusura. Per una volta, Aldo Nove, in crisi di malinconia lombo-italiana, ci trascina in un Mc Donald e: magia! Sembra d’essere a Milano. Teletrasportati su un magico cheese-burger volante fino alla Padania devoluta, tutto come a casa. Cazzo! Le patatine jap hanno proprio lo stesso sapore di quelle leghiste. Potenza della globalizzazione!? Allucinazione?! Macché, dice Aldo, togliendosi per un attimo le cuffie del diskman su cui fa girare da giorni dischi di quella che lui definisce la Bjork japponese, Shèna Ringo, è che sono proprio le stesse patate. Pare che Mac abbia creato, con un’operazione di ingegneria genetica, una sola enorme patata, di migliaia di tonnellate, custodita in un tunnel segreto nel cuore del deserto dell’Arizona, l’Ur patata insomma, o la Madre di tutte le patate. Ecoterroristi, Paul Bovè di tutto il mondo: distruggete l’Ur patata e avrete inferto un colpo durissimo alle multinazionali dell’agroalimentare. Parola di Aldo Nove e Lello Voce.

Piccola digressione animale. In Jap non vedo bestie, meno che mai bestie note. Mi spiego, passi per i corvi al posto dei colombi, c’è da aspettarselo dopo aver scoperto che qui lo sport nazionale è il baseball e che è amatissimo pure il golf, ma in Jap non c’è traccia di cani e gatti, né regolari, né randagi. O meglio di gatto ne ho visto uno, al guinzaglio. Vero è che a Shibuya a un cane hanno addirittura eretto una statua, Hachiko, questo il nome dell’immortalata bestia, avrebbe aspettato il padrone morto davanti alla stazione della metro per mesi. E’ praticamente l’unico cane che ho visto in Jap. Inquietante. Devo chiederne ragione a Pikachu, appena lo incontro…
Stamattina all’alba sette o otto di noi sono andati a Tsukiji, lo sconfinato mercato del pesce di Tokyo, ad aggirasi tra cadaveri di tonni enormi e pletore di sardelle. Loro però, anche se non lo dicono, vanno a cercare le balene. Tornano con l’aria triste. Balene nisba. Moby Dick zero. O meglio, c’erano ma alle 5 ormai era tutto finito. Già sezionate, sviscerate, spremute, immondezzate… Pudore tutto giapponese, sostiene qualcuno.
Io, mentre i nostri Melville nostrani raccontano, penso che molti italiani hanno nei confronti delle balene lo stesso inquietante atteggiamento dei jap nei confronti di cani e gatti…

Ora basta. Voglio Pikachu. Domani si parte e io voglio il Pokèmon che mi spetta. Così, conquistata la complicità di Alfredo Giuliani che deve comprare regali per nipotine varie, ci procuriamo in reception una cartina ideogrammata con la posizione del Pokemon Centre e ci avviamo al nostro personale safari nella giungla metropolitana. Fino alla stazione Tokyo Central nessun problema. Poi il panico. Hai voglia a chiedere a cortesissimi jap di indicarci la giusta direzione, cartina alla mano. Quelli sembrano più dispersi di noi. Il fatto è che a Tokyo non ci sono le targhe stradali e gli indirizzi si individuano a block, ad isolati ed allora, se in una strada non ci abiti, difficilmente saprai come si chiama. Panico. Che fare? Rinunciare? Due poeti d’avanguardia sia pure di generazioni diverse? Non sia mai detto. Tocca inventarsi qualcosa… Poi vediamo i primi. Piccoli jap simpatici che stringono tra le dita buste azzurre del Pokemon Centre. Polliciniamo Alfredo? Polliciniamo! E iniziamo a risalire la corrente di infanti con busta azzurra e così pian piano, con la sola forza delle fiaba di Pollicino, troviamo la nostra Casa dei Pokèmon! Pikachu non era nemmeno lì, ma io e Alfredo eravamo raggianti. Solo in jap può capitarti di vivere una fiaba per davvero!

Oggi si parte. Diamo un ultima occhiata ai templi, io vado di nuovo verso lo Shitamachi, l’antico centro di Edo, città ora nota in tutto il mondo col nome di Tokyo Stock Exchange, ad Asakusa-ku. Unico tempio antico della città, sfuggito con buddista fatalità ai buldozer della old economy e alle bombe americane, dentro sembra un altare barocco siciliano, ricco di neri caravaggeschi ed ori, con al centro l’icona di Kannon, dea della Misericordia. Fuori turbe di fedeli immergono mani e testa nel fumo di un enorme incensiere e a me sembra quasi un’allegoria dell’impalpabilità di questo Jap postmoderno che sto già per lasciarmi alle spalle.
Poi vado verso l’Hotel e ripassando per il parco li vedo. Qualche migliaio di shogun in minore, nazionalisti biechi e impettiti, bandiere di guerra, bianche col sole raggiato al centro, sguardo da kamikaze incazzato, sono la versione jap di Rauti e Delle Chiaie. Altrettanto brutti. Sono davvero tanti. Ci scivolo in mezzo, protetto dalla mia maschera di turista western, accompagnato dai canti di un gruppo di brave signorine in abiti occidentali color pastello che solfeggiano tutta ugola la balla della revanche nationale. Ai bordi della palude fascista si aggira un jap altissimo, magro, in divisa bianca e chepì da nostromo della Imperiale Marina: si muove a scatti, stringendo bandiera al vento garrente. Avanti-ndré, avanti-ndré. Sembra un automa Toshiba dell’ultima generazione, invece è un nazi vero e pure attampatello… Con vasto seguito giovanile, purtroppo. Ripasso di lì dopo 5 o 6 ore, a bordo della navetta che ci sta riportando all’aeroporto di Narita. Sono ancora lì, sono ancora di più. Ed è lì anche lui, che fa la marionetta minacciosa, impassibile ad aspettare il momento giusto. Forse è colpa sua se non sono riuscito ad incontrare Pikachu.
Poi decolliamo in pieno mal da Giappone, attanagliati alla gola da una saudade d’avventura comune, ci sorridiamo tutti, tutti tristi tristi.
Nuovi deserti siberiani ed hostess jap, nuovi alcolici aerei e mali alle gambe. Varie crisi d’astinenza da nicotina. Fiumicino è qui sotto, e mi accorgo che in fondo anche Roma è una città di mare. La dogana. Un cappuccino. I bagagli. Ed è allora che lo vedo. Un Pikachu vero, grande e giallo, accanto a un banchetto promozionale della Nintendo. Do un urlo e mi precipito fra le sue braccia. Lo trascino stupefatto al bar e mentre gli verso un bicchiere di ottima Vecchia con ghiaccio gli chiedo affannato: Fratello Poké, dimmi, tu potresti tornare con me a Tokyo? C’è un gruppo di shogun da neutralizzare. Io avrei scelto te… Che ne dici ? Una bella scarica elettrica di quelle tue… Credimi, quelli sono tutti amici del Team Rocket…

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