Aldo Nove, Fuoco su Babilonia!

28 dicembre 2003 Articoli e recensioni
Aldo Nove, <i>Fuoco su Babilonia!</i>

E’ la perimetrazione e la messa in funzione di un realismo nuovo la scommessa ultima di Fuoco su Babilonia!, raccolta della produzione poetica di Aldo Nove tra il 1984 e il 1996, un realismo ’infernale’, come lo definisce Pagliarani nella sua Introduzione («mi par proprio che questo realismo vada cacciato, infilato nell’inferno»), che fa i conti con la divisione definitiva del soggetto dalla sua certezza di percepire ed esperire.
Ciò che è in gioco nella poetica di Nove non è soltanto la sopravvivenza di un testo (o di una forma), la sua efficacia, quanto quella dell’autore stesso (del suo corpo) indissolubilmente legati tra loro dal momento in cui l’orizzonte della morte, del vuoto (e quello dell’autoerotismo) sono rimasti i soli dati certi di Erlebnis: «(…) È manifesto: / finito il tempo in cui tutto capivo / flirtando con il nulla io sopravvivo». Per chiosare, appena dopo: «Come poesia, però, non è scadente / almeno testimonia che son vivo // e che ragiono, o forse no ( la gente / capisce poco di quello che scrivo / ma quello che capisce è sufficiente)». La visionarietà, acutamente individuata da Pagliarani e che certo è uno dei dati più rilevanti di queste poesie e non l’ultima tra le loro molte qualità, non è solo scelta formale, letteraria. È, piuttosto, la conseguenza necessaria di una scelta precedente, quella di sopravvivere e continuare a sognare, che sta alla base di una poesia che non vuole smettere di immaginare, né di guardare dritto negli occhi il mondo.
Milano, la Milano in cui si situano tante parole, immagini, pensieri delle poesie di Nove, è, da questo punto di vista, il mondo intero, una geografia di metropolitane, insegne, storie minime che avvelenano di contraddizioni la patina liscia e lucente su cui scorre la quotidianità di un soggetto scrivente non più solo mono-dimensionale, ma addirittura monco, fatto a brandelli, polverizzato in una anonima moltitudine: «Facevo finta / di essere una città addormentata / e avevo molti soldi / e parlavo una lingua messa sotto i tram // Non mi interessava nulla di morire / Ero una folla che si radunava a comperare il giornale». L’autore sembra accedere ad una sorta di lirismo collettivo e degradato, struggente, realizzato grazie a un abbassamento vertiginoso del punto di vista, sino ai suoi livelli più strettamente ’biologici’e dunque comuni, in cui il quotidiano è spesso sinonimo dell’eccezionalmente straziante, espresso da una lingua resa anodina e quasi zoppa dall’azione devastante di un attrito polverizzante, la lingua di quella Babilonia contro cui fin dal titolo si schiera chi pur la utilizza, facendole raggiungere, col miracolo paradossale del rovesciamento, addirittura timbri politici, o, se preferite civili: «Mettendo dentro 120 grammi / di penne Buitoni nel mio piatto / guardai la tele tutto soddisfatto: / "O Berlusconi, dio mio, dammi // le 200 cosce dei miei sogni / quotidiani" supplicai, e venni / appena le danzanti quindicenni / riempirono lo schermo. (…)» L’abbassamento formale è, dunque, condizione esclusiva di salvezza dei residui di contenuti ’alti’, di quei pochi valori che ci sono rimasti tra dita e linguaggio. L’utopia, per Aldo Nove, abita oggi nelle favelas di una parola aspra, povera, spesso maleducata, ma sempre allegoricamente argutissima, capace di pensare insieme lo scacco e il sarcasmo di una recidiva utopia: «Chi muore è volgare // (…) // La gioia non ha bisogno, / di noi.»
E se, nella sua attenta postfazione, Gemma Gaetani indica Giudici come una delle fonti a cui si è abbeverata la sete di reale e di quotidiano di Nove, a me viene in mente piuttosto Gozzano, se non altro per la risentita e quasi fiera coscienza del degrado dell’arte letteraria, per la vergogna che fa da carica a un sarcasmo travolgente, beffardo, disperato almeno quanto recidivamente ribelle. Quasi che, ad allontanarlo dal lombardo, sia, prima di tutto, una questione di ’velocita’ : «O / Giudici, quanto dura / nei secoli / quella cacca sul tappeto?» chiosa malvagia una lirica di Tornando nel tuo sangue. Mentre è certo che Nove ami e si nutra di Rosselli, Bene e Campana, tutti assolutamente ’infernali’. Così come, a ben guardare, ciò che pur c’è di lombardo assume, piuttosto, in alcuni tratti, accenti e timbri schiettamente villiani: «Madre di Clivio e di Gerusalemme, / Madre di Betsabea e di Baranzate / Madre delle Bustecche e di Betlemme, / Madre del Monte Nero e di Malnate // Madre del Crocifisso e della strada / Che va dal tabaccaio a Primaticcio, / Dove alle sei la sera si dirada / al primato di nuvole rossiccio».
L’ultimo residuo di perfezione è la donna, la sua corporeità, ma anche il suo modo di vedere il reale di interpretarlo, miscela, quasi alla Almodovar, della Mosca montaliana e di una Beatrice il cui miracolo sembra essersi ridotto ad una scheggia di piacere e di utopia che si infigge negli occhi del poeta che la guarda e poi prova a balbettarne le lodi. E’ questo il retroterra che dà vita a quello che certamente è lo chef d’ouvre di questa raccolta, Una volta soltanto, blasfema e mistica preghiera che è una vera dichiarazione di poetica: « Voglio una madre grande / e troia come un fiume / di luce che si slaccia / dal sole e cade dentro / questa giornata morta: // Che spacchi le vetrine dei negozi, / che si contorca dentro / il cuore dei passanti, inondando di sangue / il centro di Milano e l’universo. // madre di Cristo, ascolta… (..) madre dei padri e delle madri, madre / dei figli e delle figlie. (…)».
Questo libro, insomma, non è solo una raccolta di belle poesie, è la cronaca di uno strazio e insieme delle ragioni per continuare a resistergli. E’ un libro fatto di coraggio, almeno quanto di parole. Sposati dall’equilibrio apparentemente miracoloso, di un linguaggio d’assenze e attriti, che, in mancanza d’esperienze, si fa esso stesso esperienza terminale, atto.
Quasi fosse la proposta, rivoluzionaria, di una nuova politica della poesia e di una possibile poesia politica per il medioevo prossimo venturo.

Aldo Nove
Fuoco su Babilonia!
Introduzione di Elio Pagliarani
Crocetti

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