Appunti di dinamica dell’ibrido

22 novembre 2003 Gli interventi di Lello Voce
Appunti di dinamica dell’ibrido

"il dialogo precede il linguaggio e lo genera"
(J.M. Lotman)

Tentare di trasformare una poetica in un insieme di riflessioni sistematiche e generalizzanti, in un’estetica, è operazione molto problematica e di dubbia riuscita. Esiste un’ideologicità connaturata al fare, una caratteristica di teleologicità della riflessione (di questo tipo di riflessione) che la destina nel campo di quello che recentemente L. Anceschi ha definito pensiero prammatico. La mano riflettente dell’autore, che è sempre, in ogni modo, riflettente (progettante), rimane poi comunque, caravaggescamente, mano ministra. Pure, questa parzialità della poetica è garanzia basilare della sua volontà di dire, e di dire in un certo modo, di effettuare una scelta, di dialogare con l’altro da sé, magari creolizzando testi e linguaggi, causa prima della sua dinamicità; né parzialità andrà inteso sinonimo di superficialità o di scarsa complessità o articolazione. Un caso come quello di Leopardi (o come quello di Pound) mi pare sia testimonianza di come una riflessione intorno al fare possa essere fruttuosa e complessivamente ampia senza accedere (senza potere o volere accedere) alla sistematicità. Allora, pur cosciente che forse sarebbe opportuno, o potrebbe essere richiesto, qualcosa di più, nelle riflessioni che seguiranno la poetica tenterà soltanto un dialogo con altre discipline (e assai spesso, occorre dirlo, ponendosi in ascolto), esplorerà i suoi confini, ma non li supererà. Certo si corre il rischio, se rischio è, di partorire un ibrido, una sorta di poetica filosofante (o linguisticheggiante), essere mostruoso con volto di donna e tronco di leone, della cui efficacia ed utilità non si potrebbe garantire, ma, da questo punto di vista, mi pare che non esista occasione più adatta di questa per tentare la scommessa: contaminare, tradurre, recita il nostro sottotitolo...
E, forse, una prima osservazione potrebbe essere svolta proprio a partire da qui, da queste due prime parole, poiché i due termini, contaminazione e traduzione, a primo sguardo, appaiono in qualche modo antitetici. Tradurre rinvia ad un operaretrasformazionale secondo un qualche algoritmo dato, in cui sia sempre possibile ripercorrere all’inverso il cammino tra il testo di partenza e il testo di arrivo: in una sorta di donazione linguistica i due testi tendono ad essere equivalenti. E operazione monodica, e reversibile. Contaminare, al contrario, ha pronuncia plurale, presuppone uno scambio-fusione (e mai un’empatia) di due soggettività estetiche diverse, rispettivamente altre, un contatto irreversibile e polifonico che produce una terza identità che non è equivalente a nessuna delle due che concorrono a formarla. La traduzione coinvolge un soggetto testuale e la sua specularità (testuale) e ogni testo tradotto tende, come prodotto, in qualche modo, di mimesis, a presentarsi come l’originale pur non essendone che il simulacro (se si esclude il criterio empirico e strettamente cronologico, quale sarà l’originale tra due equivalenti, tra due gemelli qual’è l’originale?); la contaminazione è frutto del contatto di due unità, meccanismo di produzione di un’unità nuova che rispetto ai testi "primi" non sarà mai un originale, né tenderà ad esserlo, non più di quanto una sirena non sia una vera donna o un vero uccello ma solo una vera sirena. Contaminare è trasformazione dialogica (e dunque disarmonica, squilibrata e per questo dinamica) che mostra il confine di contatto tra due io(io e tu), è un’ideologia del fare che rischia la dispersione entropica del messaggio per moltiplicarlo, laddove la traduzione garantisce la sostanziale conservazione dell’informazione trasmessa. Insomma, tra i due poli di questo discutere sembra esserci tutta la distanza che separa la traduzione di un testo scientifico (oun dizionario bilingue) da un "grillo" medievale, dal macaronico folenghiano, dai mot valises joyciani. E sembra di conseguenza, che ai presenti, disordinati appunti di poetica ibrida, creolizzata, debba interessare essenzialmente il campo della contaminazione: rammentarsi dell’assioma jakobsoniano di non traducibilità del testo poetico non farebbe che confermarlo...
Eppure, uno sguardo appena più approfondito suggerisce che, forse, la traduzione, se non altro per il ruolo chiave che sembra detenere nel processo di ricezione e fruizione del testo letterario, abbia un suo proprio diritto di cittadinanza anche nei territori della poetica. Avviene che nella ricezione di un testo estetico il fruitore, per accedere alla comprensione dell’enunciato debba "tradurlo", riducendo tutti gli scarti formali (metaplasmi, metatassi) e semantici (metasememi, metalogismi) in esso presenti. A causa della polisemanticità, della pluralità, della fondamentale complessità e connotatività del testo poetico i suoi elementi non hanno una corrispondenza univoca nelle varie "lingue" dei diversi fruitori. Per permettere che la traduzione avvenga occorre allora, almeno a parere di certa recentissima semiotica, che sia istituita un’equivalenza convenzionale tra i due codici. Ma la traduzione che avviene in questo caso non si pone quale trasformazione-trascrizione equivalente del testo di partenza, è un

tradimento, la cui fisionomia deriverà tanto dal messaggio di partenza quanto dalle trasformazioni a cui esso sarà sottoposto nel momento dell’impatto con quella che si potrebbe latamente definire l’enciclopedia del ricevente-fruitore. "Nel processo di assimilazione la lingua dello scrittore si deforma, è sottoposta a un mescolamento con le lingue che già esistono nella coscienza del lettore" e, comunque, "ilricevente entra in lotta con la lingua del trasmittente" (Lotman). Questa agonicità è sintomo della dinamicità dell’opera e della sua "lingua", poiché "quando il testo si colloca dalla stessa parte del confine da cui si trova il pubblico viene compreso più facilmente ed è meno sottoposto a trasformazioni nella coscienza dei destinatari, ma è anche meno attivo nella sua azione verso il pubblico" (idem). Si danno, così, innumerevoli (anche se non infiniti) testi che si propongono tutti, in egual misura, come traduzione del testo di partenza, anche se, ovviamente, il percorso inverso non riporterà in alcun modo ad esso. Il prodotto di questa particolare traduzione ’deviante’ è, di fatto, un nuovo testo, un aumento massiccio, paradossale, dell’informazione trasmessa. Ci si trova dinanzi a traduzioni che producono moltiplicazioni di senso attraverso catene di contaminazioni... 2
Da questo punto di vista ogni testo è un confme e il suo senso, anche e soprattutto quello dei testi estetici, varca le sue frontiere grazie a una traduzione, letteralmente, a una tra-duzione, a un trasporto, a un trasferimento, contaminato e contaminante, dall’una all’altra soggettività in quel dialogare che è ogni testo-in-atto. La progettualità, la riflessione, la poetica, che dovrà costruire e ’dirigere’ la paradossalità di un testo non traducibile e che pure vuole essere continuamente tradotto, pendolare tra i due irreconciliabili, contradditton eppure dialoganti poli del dire e del mentire, dovrà essere poetica ’di confine’, creola e contaminata, che tenti la pluralità del senso. La tensione dell’arte, sosteneva Adorno, è stretta tra il non lasciarsi capiree ilvoler esser capito.
Dietro le righe di questo apparentemente ozioso discutere di traduzione e contaminazione sembra, allora, faccia capolino un problema assai più pregnante, più prammatico, quello che riguarda la volontà di comunicare di un testo poetico, la sua ideologicità, il suo essere, strictu sensu, un testo oppure un enunciato, il suo appartenere al luogo della langue o a quello dellaparole. Se vuole avere a che fare con la comunicazione, se è cosciente del suo essere prodotta in relazione (storico-culturale) ad un determinato referente (sociale) e se con esso vuole dialogare, la poetica (e la testualità a cui essa rimanda) pare proprio non possa esimersi dal commerciare con le ’categorie’ della traduzione e della contaminazione, non possa fare a meno di riprogettare il testo come enunciato e, magari, come enunciato dialogico e polifonico, contrastando paradossalmente, proprio con le conclusioni di quel teorico, M. Bachtin, la cui ombra, insieme a quella di Lotman, non è difficile intravedere dietro le semplificazioni sinqui proposte. Non si danno enunciati - è Bachtin stesso a sostenerlo - isolati da altri enunciati: il campo si presenta con caratteristiche di intertestualità diffuse e il testo (o, meglio, l’enunciato) poetico può non limitarsi a individuare, a indicare questa dialogicità, può assumerla sudi sé, costituirla a sua struttura e così trasformare la sua caratteristica monologicità in polifonicità, ibridizzandosi, invadendo uno spazio che lo studioso russo aveva gelosamente riservato al genere ’concorrente’, al romanzo. La poetica di cui andiamo discorrendo, cosciente che nei processi di trasmissione e di trasformazione dell’informazione vengono, di fatto, utilizzati due codici, l’uno per ’cifrare’ e l’altro per ’decifrare’, (che, a dirla con Jakobson, occorre distinguere le ’regole’ di chi parla dalle ’regole’ di chi ascolta) e che il senso tende a realizzarsi nella zona creola di contatto tra essi, per evidente peccato di ybris, decide di costruire il testo stesso in quanto dialogo, anzi, mi si passi l’espressione, in quanto polialogo. A voler metaforizzare (e, magari, troppo arditamente) si potrebbe dire che si rinuncia all’armonia euclidea, alla ’classica misura’, a favore di un andamento frattàle; il testo/enunciato si organizza a gradini (formali e semantici), articolato, complesso, ma, a causa della dialogicità che lo fonda, non scomponibile (almeno negli intenti), segno integrale, organico: il tentativo, insomma, nella pluralità dei punti di vista (delle ideologie)3 ammessi al rendez-vous, tenta di costruire una sorta di joiner letterario (e il riferimento èqui alle photographic pictures di D.Hockney). Ma, a questo punto, vanno comunque precisate alcune coordinate generali, svelate alcune ambiguità (ìnvolontarie) di ciò che precede. Non si tratta, evidentemente, di sostituire una ’poetica della ricezione’ alle, invero innumerevoli, ’poetiche della trasmissione’, magari sulla scia di certe estetiche ’della ricezione’, che dopo aver messo il giusto dito nella piaga giusta con disinvoltura ricadono nello speculare travisamento: al più il tentativo presente vuoi essere indicato come ’poetica del dialogo’... Ma, comunque, con altrettale fermezza andranno rifiutate le ipotesi che, pur sotto l’apparenza di una coscienza viva del problema, irrigidiscono il rapporto in un ’senso unico’ di volontà e strategie, tendendo ad isolare la progettazione del testo dal rapporto con la ’casualità’ del divenire, e dunque, a conti fatti, dall’esperienza, dall’accento più fecondamente attivo dello ’sperimentare’. Ciò può valere, ad esempio, per l’ipotesi cooperativa, formulata da Eco nel suo Lector. Il gioco, l’agone letterario che si svolge tra autore e destinatario viene descritto, con metafora saussuriana, come una partita di scacchi in cui tutte le contromosse del destinatario sono già preventivate dal testo stesso: si tratta, appunto, di un lector infabula. Ma il punto di vista di Eco è, insieme, schiettamente ’ottimista’ e si inquadra in quella pronuncia della progettualità artistico-letteraria che si pone assolutamente a monte del concreto operare, che pretende, altresì, di poter prevedere ed organizzare totalitariamente: il lettore echiano riporta alla mente certi automi giocatori di cui fu ricco il Settecento. In realtà le cose non vanno così, la partita che l’autore gioca è con un avversario integralmente ’antropologico’ eppure invisibile (per mancanza di feed-back), di cui è molto difficile prevedere strategie e contromosse e rispetto al quale l’autore ha il solo vantaggio di compiere la prima mossa (di stabilire le coordinate generali, l’orizzonte ermeneutico). Le sue pedine sono fantasmatiche e si rendono visibili solo quando mangiano o sono mangiate da quelle autoriali, quando con esse si creolizzano. Il lector è in qualche modo in ed extrafabula ma, comunque, questa fabulascacchiera non consente partite truccate e il risultato di quest’agonicità, se pure ipotizzabile, resta poi, sostanzialmente, imprevedibile: l’autore stabilisce autonomamente i significati e l’orizzonte ma il senso tende a mantenere in sé una buona percentuale di hazard, esso si propone comunque come un frutto dialogico e plurivoco. Progettare l’imprevedibile sembra essere il compito paradossale di questa poetica. Si pensi, a proposito di questo rapporto stretto tra progetto ed imprevedibilità, all’effetto ’retorico’ per il quale qualsiasi elemento del testo che pure, dai punto di vista autoriale, possa essere considerato ’casuale’, viene dal fruitore comunque percepito come volontario, progettato. E ciò pare avere attinenza stretta con quella che Benjamin definiva trasformazione del contenuto effettuale in contenuto di verità. Così, in questo suo percorso polifonico, la poetica (la mia evidentemente) giunge al suo primo cruze: incontra il plurilinguismo che costituisce la struttura basilare di quelli che si potrebbero definire, con una qualche approssimazione, i suoi step ’formali’. Esso mescola le lingue, tende a creolizzarle, a descrivere, a delimitare, con la loro differenza, un campo di senso che è quello di una intersoggettività dialogante. Ma, sia chiaro, nella pronuncia alla quale qui si ailude, il plurilinguismo non si limita a giustapporre iacerti provenienti da diverse lingue ’naturali’, tende a mescolare i meccanismi sintattici stessi, a siogarli, lavora sotto il livello della frase, nelle interconnessioni tra le parole, tende a rendere il tessuto verbale ’diaforico’ e diafonico, lontano sia da qualsivoglia esperanta koiné che dalla dispersione babilonica. Né si tratta di sole lingue ’naturali’ ché, a ben guardare, si scorgeranno inflessioni idiolettiche, sociolettiche o gergali, accenti schiettamente dialettali, di un dialetto che non vuoi rimandare ad alcun prius incontaminato, un dialetto degradato ed idiolettato sulle cui rovine si locupleta una neo-lingua arbitraria, inventata, che combatte beffarda, col suo ’basso corporeo’, la concorrenza plurivoca, a volte classica, o aulica, o sperimentale, o, a sua volta macaronica, di un vasto campionario di quelle che Spitzer ebbe a definire lingue dello stile.Sì, perché, a guardare ancor meglio, si scoprirà che al cuore del plurilinguismo è annidato, sornione, il pluristilismo. Contaminare le ’lingue’ è, tout court, per questa mia poetica ibrida, contaminare gli stili. E gli stili, e attraverso di loro i ’generi’ che essi tendono ad indicare metonimicamente, costretti alla contaminazione creola, cigolano e scricchiolano alla ricerca di un nuovo equilibrio, si trasformano, si ricodificano e risemantizzano: sotto il velo che si vuole comunque ostinatamente monologico della poesia, il loro dialogo polifomco mostra le crepe e le fessure del senso e del discorso e ciò che si evidenzia, con immancabile contraddittorietà, è proprio la loro singolarità, e, insieme, la loro dipendenza da una reciprocità. Ciò acui si tende, chiaramente, non è l’abolizione dei generi quanto, a voler ricordare una felice espressione di Pagliarani, la loro "reinvenzione". Il fme non è l’eclettismo ma l’allegorizzazione di una contraddizione. In un momento in cui la cosiddetta ’lingua d’uso’ tende sempre più, in grazia di unprocesso d’estetizzazione selvaggia, a porsi quale espressione di ’secondo grado’, la lingua poetica sembra perdere la possibilità di istituire uno scarto, ma, poiché lo scarto è comunque sentito come necessario, essa lo rende endogeno, lo tra-duce dentro di sé. La differenza non è più tra sé e l’altro ma tra sé e sé: si ncostituisce e sirimodellizzanella struttura stessa del testo/enunciato il rapporto conflittuale delle lingue che nel referente reale è nascosto dalla patina scintillante epost di quest’ irenica fine di millennio. Il corpo del testo assume su di sé quella ferita, quella differenza che prima indicava e, allegoricamente, prende su di sé "tutto il peso del mondo". Da operazione di mascheramento vuole farsi meccanismo di smascheramento. Ma, questa è solo una prima tappa, ché un’altro step attende, appena dietro l’angolo...
Dietro l’angolo plurilinguista, infatti, occhieggia la citazione, la slogatura del significato, la sua ibridazione, la sua moltiplicazione. Grazie al suo impiego è apparso possibile un lavoro di torsione a livello dello strato semantico stesso. L’operazione di ri-uso, la second main, non è operazione neutrale di semplice riproposizione, di ilare convivenza dell’eterogeneo, e quando pure così tendesse a presentarsi non si tratterebbe di una sua naturale postura, ma di operazione schiettamente, e tristemente, ideologica. La citazione è, benjamimanamente, una vendetta non una pacificazione. "La riproduzione di un testo da parte di un soggetto (ritorno ad esso, rilettura, nuova esecuzione, citazione) - notava Bachtin - è un evento nuovo e irripetibile nella vita del testo, un nuovo anello nella catena storica della comunicazione verbale". Le parole della poesia (e non solo quelle della poesia) sono parole già abitate, i mattoni della costruzione sono ’romanicamente’ riciclati, già masticati e biascicati, a dirla con Gadda, in altre innumeri lingue-mascelle, dall’altrui saliva: "Nessun membro della comunità verbale trova mai parole della lingua che siano neutre, immuni dalle aspirazioni e dalle valutazioni altrui. (...) Ognuno riceve la parola attraverso la voce altrui, e questa parola ne resta colma" e così "l’artista non riceve alcuna parola che abbia una forma linguisticamente vergine. Ogni parola è già fecondata dalle situazioni pratiche o dai contesti poetici in cui l’ha incontrata. (...)Per questo l’opera del poeta (...) può solo compiere alcune trasvalutazioni, alcuni spostamenti di intonazione, che egli stesso e il suo uditorio percepiscono sullo sfondo delle vecchie valutazioni, delle vecchie intonazioni". Il lacerto è targato Bachtin, ma, probabilmente, il testé citato Gadda lo avrebbe sottoscritto... Ciò che qui si ipotizza è una fondamentale intertestualità del campo letterario e ciò non solo per sue caratteristiche specifiche ma in grazia di considerazioni più ampiamente antropologiche e (mi si consenta l’azzardo) filosofiche che investono l’atto stesso della conoscenza, inscindibile da un processo di mutua comunicazione: in questo senso - a voler ripetere l’esergo di questi disordinati appunti - si può dire che "il dialogo precede il linguaggio e io genera". La lingua poetica partorita dalla coscienza di tale ’binarietà’ e/o plurivocità si propone come una costruzione poligloua in cui l’uso delle citazioni vuoi mettere a nudo una struttura fondamentale della coscienza, sottolineare tutte le torsioni e le contaminazioni dal cui agire nasce e si rinnova il senso. "Per cominciare a funzionare, la coscienza ha bisogno della coscienza, il testo del testo, la cultura della cultura, - si legge nel lotmaniano Semiosfera - l’introduzione .di un testo esterno nel mondo immanente del testo svolge un ruolo importantissimo. Entrando nel campo strutturale di senso di un altro testo, il testo esterno si trasforma, formando un messaggio nuovo". E, per qualche strana assonanza ciò mi ricorda una dichiarazione dii. Mirò nella quale si affermava la sua ’incapacità’ a dipingere se non a partire da una ’macchia’ preesistente sulla tela, il suo "orrore" per le tele completamente bianche. Se le cose stessero come affermato dallo studioso sovietico (e, sia pur con qualche diversità di non poco momento, da Bachtin) la base per "la produzione del senso" starebbe proprio nell’azione "reciproca fra strati del testo semioticamente eterogenei e in rapporto di intraducibilità reciproca (...) in (...) complessi conflitti di senso fra il testo e il contesto ad esso estraneo". Allora, forse, a volerla considerare dal punto di vista dei ’fine’, più che da quello del ’mezzo’, la ’poetica della citazione’ che qui, più o meno esplicitamente, si tende ad accreditare, potrebbe, credo a ragione, essere definita una ’poetica del senso’ o, a ricordare quanto prima affermato, una poetica del senso dialogico: non semplicemente l’aggirarsi tra le rovine del già detto, tentando cinici e ingannevoli assembiage per sconfiggere un’assordante silenzio, ma la costruzione dinamica di reciprocità vive, contraddittoriamente agili nel bipolarismo della loro immanente ’storicità’ e nell’attualità della loro sincronica contaminazione. La citazione sembrerebbe presentarsi come un momento di ascolto di un testo da parte del testo, operazione complessa e mai neutrale, di ricezione, tra-duzione, torsione, ritrasmissione dell’altro, di moltiplicazione del senso che tenderebbe a trasformare il testo da passivo recipiente "di un contenuto versato in esso dall’esterno" inun veroeproprio "generatore" di senso, in un agire comunicativo-dialogico apartire dal testo stesso (e altrettale dinamìcità sarebbe, nel caso, richiesta al fruitore). Ciò che comporta un’operazioned’innestoemontaggio letterario è una sorta di mobile e dinamica ’triangolazione’ del senso, un percorso lungo i confini, poiché, in fine, l’unità del pastiche è quella allegorica e frattàle di una costellazione, di una galassia che fonda la sua identità (la sua individuabilità) non sulla perdita di riconoscibilità (di individualità) di ogni suo singolo elemento, come se per una sorta di abbassamento della luminosità tutto si omogeneizzasse nella ’sintesi’ di una stessa, opaca, patina-tonalità, trasformandosi in una marmellata tutti-frutti, in una zuccherosa ed aideologica koinè (e si pensi a certi prodotti dello ’storicismo’ architettonico), quanto, insieme, sull’esserci contemporaneo e dialogico, delle sue estreme e scintillanti particolarità e sul loro contraddittorio ’negarsi’ in quanto individualità in una rete di rapporti e funzioni. La stroncatura feroce che Jameson riserva alpastiche sembra frutto, quanto meno, di un travisamento sineddochico che condanna il tutto per la parte, che deplora la valenza polifonica per colpire, in realtà, i suoi usi, per così dire, retrogradi: ma, ad alzare così il tiro pur di colpire il bersaglio, il rischio che si corre è quello di buttare via il bambino insieme all’acqua sporca... Affermare che ciò che "spesso viene chiamato intertestualità non riguarda più la profondità" rischia di significare che tout court la lette-ratura, il senso della letteratura, non riguarda più la profondità. E su questo, sinceramente, non si può concordare. Non mi pare un caso che, posto di fronte ad esempi dipastiche ’radicale’ quali, per tornare alle arti, quelli di Nam June Paik, l’autore americano debba, in buona misura, fare marcia indietro ed ammettere che nelle opere del giapponese "lavividapercezione della differenza radicale sia in sé e per sé un nuovo modo di comprendere ciò che eravamo abituati a chiamare rapporto: qualche cosa che la parola collage designa ancora in modo assai vago".
E chi sa che percorrere i sentieri che portano alla dialogicità non ci aiuti a reinterpretare i due poli della storica divaricazione tra Avanguardia e Tradizione non più come fini ma, più semplicemente come mezzi, come strumenti del senso.

Note

2."Nel caso di lingue fra le quali esiste una corrispondenza univoca, ad un testo in una lingua corrisponderà un solo testo, nell’altra lingua. Qui nel testo estetico troviamo invece una sfera di interpretazione, nel cui ambito sono inclusi una gran quantità di testi diversi l’uno dall ’altro e ognunodi essi è in egual misura una traduzione di quello di partenza. Eevidente chesefacciamo la traduzione inversa. non si otterrà in nessuna caso il testo da cui eravamo partiti. Si può parlare qui della nascita di testi nuovi. il mecanismo di traduzione basato sull ’equivalenza convenzionale appare così un meccanismo del pensiero creativo ". (Lotman).

3. "Per ideologia noi intenderemo l’insieme dei riflessi e delle rifrazioni nel cervello umano della realtà sociale e naturale che esso esprime e fissa con la parola, il disegno, ilgrafico, o con un ’altraforma semiotica." ’ideologicamente: vale a dire in un segno, in una parola, un gesto, un grafico, un simbolo (...)" (M Bachtin).

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