Quel guastafeste di Lello Voce di Aldo Nove [rec. a Fast Blood]

17 ottobre 2004 05. Fast Blood
<i>Quel guastafeste di Lello Voce</i> di Aldo Nove [rec. a Fast Blood]

Il destino nel nome (nel cognome, più esattamente). Lello Voce è poeta e performer (nonché straordinario romanziere), memore di altri tempi, nobili e tutt’altro che "moderni": la lettura privata della poesia è del resto un fenomeno che ha meno di due secoli, è retaggio di quella concezione solipsistica, marginale, di derivazione tardo romantica e assurta poi a marchio di "genuità", di introspezione e insomma di nicchia e quindi di emarginazione. E c’è la tradizione anglosassone, quella della poesia letta in pubblico, declamata. C’è il rap, forse la più genuina espressione popolare contemporanea e globale di una parola che gioca (gioca, come giocava Palazzeschi, e giocavano Toti Scialoia ma anche Ungaretti e, molto prima ancora, Metastasio Teofilo Folengo Jacopone da Todi Anacreonte, tanto per dire, a ritroso sul serio) con il ritmo e le rime, lasciando che la densità si coniughi a una possibilità di "consumo" che è poi fruizione. Che è poi vita, e realtà. Lello Voce è stato uno dei primi, in Italia, a promuovere e a incarnare, con il suo lavoro, "l’avantpop". Un’avanguardia popolare, di matrice statunitense, almeno nella sua genesi letteraria, che non accetta la dicotomia (snob quando non mossa da invidia) tra ricerca e godibilità. Lello Voce è stato il primo, in Italia, a divulgare i Poetry Slam, unico evento di poesia in cui i versi si mettono in gara, e con loro i poeti, in uno show dove pubblico e poesia sono un corpo solo, quel corpo gaudente di Duchamps in cui passano il linguaggio e i suoi equivoci. Nulla di più lontano dalla romita, ascetica, asettica idea di poesia che ancora oggi strenuamente permane. Lello Voce, infine, è un guastafeste. Se feste si possono definire quelle veglie funebri definite "letture di poesia" dove la profondità spirituale si confonde con la noia paludata delle occasioni mancate, e reiterate, e alle quali Lello voce non parteciperà mai. Ed è un guastafeste pure perché la sua produzione poetica esce dagli schemi, si fa inafferrabile, rifiuta le regole, le sovverte e le ricrea. Fastblood è un cd che contiene quattro lunghi rap. I testi sono gli stessi editi lo scorso anno (con il titolo "L’esercizio della lingua") in occasione del Premio Delfini, che Lello Voce vinse. Sono quattro "lai". Arcaismo che sta per "lamentazione". Lamentazioni rutilanti, "ragionari" che non lasciano spazio alla riflessione (intesa come meccanico prodotto della "poesia alta", quella da degustare, pasolinianamente, carduccianamente, all’ombra di un albero, fronzuto o meno, feticcio di una natura che oggi, in poesia, è già da subito bozzetto di patetiche fughe dall’urbe globale) ma diventano azione. Poesie, lamentazioni che stridono, frenetiche. Che vanno diritte al cuore. Il cuore della contemporaneità. Ritmo dove la parola brucia e si consuma. Scriveva anni fa Nanni Balestrini, uno dei primi a riconoscere lo straordianario talento di Lello Voce: "Dietro la pagina / un vuoto incolmabile / non mima niente / nel paesaggio verbale / l’arte dell’impazienza / sovrappone un’altra immagine / mentre passiamo bruciando". Dunque una fretta. Ma "quel vuoto incolmabile", quel "non mimare nulla", per Balestrini come per Voce, altro non sono che l’invocazione di un sempre più refrattario presente. Un presente che Voce analizza con spietata lucidità. E ce lo vomita addosso - grazie alla collaborazione di musicisti del calibro di Paolo Fresu, Frank Nemola, Luigi Cinque, Luca Sanzò e di Michael Gross, ex tromba di Frank Zappa - sorretto da un tappeto sonoro in cui musica e parole diventano strumenti bellici (dell’unica guerra che non sia follia, quella culturale), si confondo all’attacco simultaneo della poesia come esilio dalla realtà e della realtà stessa. Ecco come inizia il primo poemetto (il primo "rap"): "Così non va, non va, ti dico che così non va: come una supernova esplosa come un astro strizzato di fresco come la tua bocca stanca e tesa accelerata particella ora non so più nemmeno se sia una stella o invece pajette incollata allo sguardo scheggia di diamante che ti fora le pupille o desiderio di luce che sfarfalla all’orizzonte dell’ultimo oltremondo viaggio condanna che ci danna panna acida che ingozza la parola che ora già ci strozza perché così non va, non va". E poi: "(…) qui si muore di fame e d’obesità si muore di richezza e povertà, si muore di solitudine e rumore si muore in nome di Dio per liberarsi di Dio si muore per il solo gusto di farlo e sentirsi anche solo per un attimo Dio"… "Così non va": era, questa frase, l’ossessione dell’ultimo Beckett, il cantore delle macerie e della loro persistenza. Su quelle macerie Lello Voce ha costituito la sua militanza, la sua poesia civile nonostante tutto (nonostante la profonda inciviltà dei tempi). Con un lessico e una sintassi di esorbitante efficacia, giocata su allitterazioni e brachilogie, scatti in avanti e deragliamenti ritmici, insolite fusioni (Il Campana più musicale di Genova, ad esempio, ma anche il talento ritmico degli Articolo 31, forse tecnicamente, ma solo tecnicamente, il miglior gruppo rap italiano). E’ la velocità del sangue che scorre (al G8 di Genova, di cui Voce è stato il più attento e fedele cronista poetico, e in ogni parte del mondo in cui continua a scorrere) a dettare il tempo di queste letture performate, o meglio di queste poesie che al contempo sono azioni, invettive e spronano all’azione. Lello Voce ha il dono davvero eccezionale di scandalizzarsi quando tutti sembrano avere accettato la quiescenza, quando il Titanic affonda e i suonatori (e i versificatori) continuano indefessi le loro attività di "distrazione" estetica (fu proprio Hans Magnus Enzensberger a paragonare il nostro tempo alla vicenda del Titanic, al suo sfarsi in "vertiginosi souvenirs" di un’era allo sfacelo). L’ascolto del disco (il primo di una collana dedicata a progetti simili) è accattivante e lascia un retrogusto di profonda inquietudine. Come se Voce "non ci avesse detto tutto" ma perché "dire tutto non si può" e Voce e forse oggi l’unico poeta italiano che a quel tutto si avvicina, lontano da qualunque "scarto minimo", da qualunque leziosità che ci salvi lì, nella poesia, con la poesia. Ma lasciamo parlare ancora Voce: "(…) c’è un’aria che spira un’atmosfera da strage un clima che intima gente che plaude prona s’inchina c’è chi dovrebbe opporsi pone domande e non ha risposte c’è che nessuno ha più speranze riposte ma solo azioni e buoni bontà in borsino e sentimenti in finanzieria c’è che è tutta una mal’aria tutta umida di violenza e senza ripari a cui correre né santi a cui ricorrere"… Quello che conta è non abiurare la lotta, la resistenza ("Piano piano anche tu ti sfilerai dalla stretta china della rivolta / per diventare un vecchietto che sgrana massine ottuse / la stolta vena dell’ottuso buonsenso", scriveva anni fa Angelo Maria Ripellino, cito a memoria). I nemici ci sono ancora, come Lello Voce ci ricorda nella splendida chiusa dell’ultimo poema-rap, Lai del ragionare caotico (Black lai): "uguali a oggi com’erano ieri uguali oggi a come saranno domani quando in fila a capo chino attenderanno lo schianto possente che li spazzerà lo schiaffo rude che ridendo lieto li annienterà"…

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