Duetti#11. Le differenti voci della parola: Dome Bulfaro e Claudio Pozzani

10 febbraio 2016 Letteratura e arti
Duetti#11. Le differenti voci della parola: Dome Bulfaro e Claudio Pozzani

In un momento di così radicale mutazione antropologica, anche e soprattutto a livello del linguaggio e dei suoi media, è scontato che la poesia ne sia coinvolta (quale arte più ‘linguistica’ di lei?) e che l’attenzione di chi guarda al panorama poetico italiano sia catturata più dalla scelta mediale fatta dai singoli autori, che da quelle che un tempo si sarebbero definite le caratteristiche ‘formali’ (‘stilistiche’) dei loro testi.
Io stesso ho avuto modo di sottolineare quanto, oggi, prima ancora di investigare sugli ‘ismi’, sia produttivo interrogare i singoli autori e le loro opere a proposito delle loro scelte mediali.

D’altra parte, il fatto che i livelli formali si moltiplichino (oltre al testo, la sua oratura, il contrappunto musicale, ecc.) spesso rende ancora più evidenti differenze di poetica che a livello solo testuale potrebbero risaltare meno. La decisione di eseguire le proprie poesie (e dunque di comporle in modo tale che esse lo siano in un determinato modo, secondo determinate forme ‘sonore’ ) non significa certo che si sia tutti d’accordo sul come farlo e su che significato dare a quella scelta (ad esempio rispetto ai rapporti testo/oratura/ musica).
Anzi, più la ricerca si affina, più si diffonde l’atteggiamento ‘performativo’, più vengono a galla differenze a volte radicali.

A volte questo accade anche tra autori che pure condividono esperienze e approcci alla poesia. È il caso di Dome Bulfaro e Claudio Pozzani, entrambi da sempre attivi sul versante performativo, entrambi alla testa di Festival che allo spoken word dedicano gran parte delle proprie programmazioni ( Poesia presente, di Monza, e il Festival internazionale di Poesia di Genova), entrambi curiosi esploratori della geografia in versi e ottimi scout del nuovo. Ma molto diversi quanto a produzione.

Il recentissimo libro-disco di Dome Bulfaro, Prima degli occhi, (musiche di David Rossato, ed Mille Gru) è stretto (o, meglio, si espande) tra una nascita e una morte (un ‘lutto gioioso’, lo definisce l’autore) che sono il medesimo evento: la nascita di un figlio, la morte della ‘giovinezza’ della giovane coppia che lo genera. È una sorta di ‘placenta poetica’ che nutre quell’evento e insieme se ne nutre, in uno scambio alla pari tra forma e vita, alla ricerca di quell’equilibrio complesso che a volte chiamiamo ‘sacro’ e che poi si presenta, qui, come un’intensità rilassata, ma sempre vigile, un bilanciamento tra mente e corpo che è anche quello tra voce e parola: un wabi-sabi.
Il wabi-sabi è, in maniera totalmente aliena dai nostri canoni occidentali, tanto esperienza ‘vitale’, quanto canone estetico, una ‘forma’ della poesia (e dell’arte) che mette a testo l’impermanenza del tutto, dunque una bellezza costantemente imperfetta, ma fluida, una poesia come continuo ‘farsi’. I suoi ‘ictus’ (così si chiamano tutti i bellissimi testi raccolti) sono lampi e insieme accenti che fondono, grazie ad un esercizio d’intensità interrotta, momenti di vita condensati da una lingua sempre al di qua di ogni lirismo e sempre al di là d’ogni espressionismo: piuttosto nella frattura che li separa. La musica è costituita da una serie di pattern sonori, che stanno lì a fare da superficie ‘riflettente’ della parola e dei suoi significati, per amplificarli, o sottolinearne una serie di sottili détournement.
Rossato articola sintatticamente i propri suoni, lasciando che essi si adattino al cursus della lingua e al respiro vocale, senza traccia alcuna di melodia e riducendo al minimo anche l’andamento ritmico. La voce si appoggia sui suoni, scivola su di essi, o rimbalza, traendone energia per un nuovo respiro e dunque per un senso successivo. Ne sottolinea, per dir così, l’aura sonora.
È un libro che può essere eseguito in silenzio dal lettore, o fruito dall’ascoltatore-lettore nella performance che ne dà l’autore, ma che resta comunque, per l’appunto, prima degli occhi e, verrebbe da dire, nel suo risuonare, sempre dopo le orecchie.

Nel caso di Pozzani e del suo La marcia dell’ombra (musiche di Fabio Vernizzi, ed. CVT Records) il testo invece è ‘inchiavardato’ alla musica, ne fa un’interfaccia essenziale, che amplifica e veicola la scelta evidentemente ‘espressiva’ dei testi che stanno a monte.
Prima ancora che la parola, Pozzani nella sua esecuzione sembra cercare il ritmo e la voce, il respiro che si dovrà poi fondere con l’accompagnamento musicale.
L’approccio evidentemente anaforico che fa da sorgente ‘impulsiva’ a molti dei testi sembra mimare proprio quel ‘prendere fiato’ che sta prima d’ogni emissione di voce, che essa sia articolata o meno.
I testi si avvolgono su se stessi, cercano e poi abbandonano, per territori più rischiosi, le forme della ‘canzone’, si arrischiano alla scommessa dell’allegoria, che spinge più indietro la musica, la performance spesso si stabilizza su un equilibrio che sembra alludere a quello che in musica si chiama un ‘parlato’, mentre la melodia musicale incrocia la prosodia linguistica e tenta di avvolgerla e poi di proiettarla più lontano possibile dalla parola, tenendola però sempre legata alla lingua, impedendole di accedere al canto: ciò che conta e che ‘fa senso’, insomma, è il linguaggio, prima d’ogni armonia musicale. Tra mood rock e progressive, ed altri addirittura pop, si fa largo una poesia che fa rima, prima di tutto, con ‘energia’.

Così, a sentirli (e a leggerli) uno dopo l’altro, tra intensità ed espressività, tra eco e moltiplicazione, le differenti voci della parola dialogano tra loro e sembrano mostrarci quale sarà il dibattito di domani, quando parlare di poesia performativa ci apparirà, infine, come un pleonasmo: il dibattito (e magari lo scontro) che riguarderà la forma acustica delle parole, la loro ‘esecuzione’, l’unica capace di produrre senso sino in fondo, anche se la nostra resterà solo una lettura silenziosa: in absentia (della voce del poeta, ma mai di quella della poesia)

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